Filip David (foto Medija Centar Beograd)

Filip David (foto Medija Centar Beograd)

Una vita e un'opera profondamente segnata dall'esperienza personale e dalla riflessione artistica sulla contrapposizione tra Bene e Male: è quella dello sceneggiatore e scrittore Filip David, recentemente scomparso a Belgrado. Il ricordo di Božidar Stanišić

28/04/2025 -  Božidar Stanišić

No, non ho alcuna intenzione di scrivere un necrologio sulla morte di Filip David (Kragujevac, 1940 – Belgrado, 2025). Preferisco ricordare l’umanità di Filip, la sua poetica del narrare e una collaborazione lunga e amichevole. Collaborazione che ha portato anche frutti concreti, in particolare per quanto riguarda l’avvicinamento dei lettori italiani alla sua opera.

Nell’apprendere la triste notizia, mi è tornata in mente una dichiarazione di Andrić in cui elogiava gli scrittori serbi che negli anni ’60, nonostante la loro giovane età, si erano già fatti notare: “Mi piacciono Kiš, Kovač e David, ma soprattutto David”.

Ci conoscemmo nell’autunno del 1988 a Belgrado. Il motivo – un mio saggio dedicato a Princ vatre [Il principe del fuoco, 1986), una raccolta di racconti sull’occulto con cui David, in un certo senso, ha ulteriormente elaborato la narrazione sviluppata nella raccolta Bunar u tamnoj šumi [Il pozzo nella foresta buia, 1964].

In quel periodo, Filip David era curatore del programma teatrale della TV Belgrado e professore presso la Facoltà d’Arte Drammatica, ed era più conosciuto come sceneggiatore e collaboratore degli ormai mitici registi Zafranović e Šijan. Mi ricevette nel suo ufficio, in via Takovska 10.

No, non ricordo gli argomenti affrontati durante la nostra conversazione, però mi è rimasta impressa la sensazione di aver incontrato un uomo e uno scrittore capace di ascoltare attentamente gli altri e di parlare con sobrietà concentrandosi sull’essenziale.

Alcune delle lettere che mi inviò durante il nostro scambio epistolare protrattosi per qualche anno, fino al 1992, andarono perse in quel periodo - di cui David si sarebbe poi occupato sulla scia del pensiero di Primo Levi, chiedendosi: “Siamo mostri?”.

Questo è anche il titolo di una sua raccolta di saggi (1996) sul dramma post-jugoslavo e serbo della dissoluzione, dei crimini (e del nostro rapporto nei confronti dei crimini e della memoria) e del disgregarsi dei valori “in tempi bui” (come li definisce Hannah Arendt).

Durante i nostri tempi bui, e poi durante quegli anni “grigi” successivi al 5 ottobre 2000, David era molto impegnato come cittadino e intellettuale. Fu uno dei fondatori dell’Associazione indipendente degli scrittori (Sarajevo, 1989), del Circolo di Belgrado (1992) – per anni sinonimo di resistenza civica al regime di Milošević – e del Gruppo 99, fondato alla Fiera del libro di Francoforte nel 1999. Ha pagato il prezzo per le sue posizioni ed esternazioni pubbliche venendo licenziato dalla tv, ma anche dalla facoltà di Belgrado (tornerà ad insegnare dopo il 5 ottobre 2000).

Quando, a nome degli organizzatori, lo invitai a partecipare al congresso annuale del Centro “Ernesto Balducci”, David accettò volentieri. “Siamo dei mostri?” – o chi siamo se restiamo indifferenti di fronte al crimine e se non coltiviamo la memoria? – , titolava così il suo intervento. “Un grande uomo”, mi disse in quell’occasione don Pierluigi Di Piazza (1947-2022), fondatore del Centro Balducci.

Ho smarrito da qualche parte la copia del messaggio che David ci inviò via fax, non ho però dimenticato il suo contenuto che credo di riuscire a riportare qui, più o meno fedelmente: finché ci saranno luoghi come il vostro centro a Zugliano, dove l’idea di pace resta viva e la solidarietà con i perseguitati e gli ultimi è così forte, il bene avrà la possibilità di prevalere sul male.

Il tema del Bene e del Male occupa, a mio parere, un posto centrale nell’opus letterario di David, un opus composto da poche opere, ma vastissimo dal punto di vista semantico e caratterizzato da uno stile narrativo del tutto peculiare.

L’edizione italiana de Il principe del fuoco, pubblicata nel 2009 su mia proposta, mi ha reso felice, anche perché mi ha permesso di rivedere alcune mie idee, sommarie e superficiali, su quest’opera in cui la Cabala e le tradizioni chassidiche fungono semplicemente da sfondo ad una narrazione con cui David racconta i drammi del nostro tempo.

A rallegrarmi è stata anche l’edizione italiana del suo romanzo Kuća sećanja i zaborava [La casa della memoria e dell’oblio], uscita nel 2017 (tre anni prima, nel 2014, vincitore del premio NIN). In quest’opera David elabora radicalmente il tema del Bene e del Male, tanto che il suo pensiero soltanto di primo acchito può sembrare vicino alla nozione di banalità del male di Hannah Arendt. Era consapevole – lo so per certo – dell’importanza di saper scegliere l’argomento, però era uno Scrittore. Quindi, un artista convinto che “non sia sufficiente avere una storia, è altrettanto importante il modo in cui quella storia viene raccontata”.

Tra gli elementi affascinanti del suo ciclo narrativo spicca la tecnica della narrazione ad incastro (che, secondo le sue stesse parole, gli ha permesso di addentrarsi nel mondo dei labirinti borgesiani), ma anche il ritorno all’antica tradizione narrativa chassidica, dove il desiderio del narratore di incuriosire il pubblico è di fondamentale importanza.

Il suo dittico romanzesco San o ljubavi i smrti [Un sogno sull’amore e sulla morte] del 2008 è un omaggio particolare alle tradizioni chassidiche e yiddish. Quest’opera non è ancora stata tradotta in italiano, però, grazie al lavoro di traduzione di Luca Vaglio, in Italia è disponibile il romanzo Hodočasnici neba i zemlje [Pellegrini del cielo e della terra, il libro ha avuto due edizioni, nel 2017 e nel 2018).

La trama del romanzo è stata semplicemente “spostata” nel XV secolo: i protagonisti sono per molti aspetti nostri contemporanei, con abiti dell’epoca dell’Inquisizione. Mi piacerebbe se i lettori italiani potessero leggere anche la raccolta di racconti Bunar u mračnoj šumi.

Non avremmo mai avuto l’opportunità di leggere tutte queste opere – addentrandoci con piacere nel tessuto narrativo e soffermandoci di tanto in tanto per riflettere sulle complesse questioni del Bene e del Male – se Fića Kalinić non fosse sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale e all’Olocausto.

Immaginiamo un bambino di tre anni che, per forza di cose, vive con la madre e il fratello minore nel villaggio di Manđelos, a nord di Sremska Mitrovica. Dico per forza di cose perché era il 1943, nessuno di loro era nato in quel villaggio e il bambino doveva essere pronto, giorno e notte, a pronunciare il suo falso cognome – Kalinić. Il nome era vero: Filip, affettuosamente Fića. E non doveva assolutamente menzionare suo padre. Doveva tenerlo sempre a mente ed essere pronto alla fuga in qualsiasi momento, perché il villaggio si svuotava di fronte alla minaccia di un’irruzione della polizia o dell’arrivo dei soldati occupanti.

Un giorno l’intera popolazione del villaggio fu deportata in un campo di concentramento a Sremska Mitrovica. Un’immagine che David, pur avendola preservata nella memoria probabilmente solo attraverso i ricordi di sua madre, porta con sé per tutta la vita: la madre lo teneva per mano, mentre portava in braccio il fratellino più piccolo; la fila di persone era lunga e chiunque restasse indietro o si fermasse lungo la strada rischiava di essere ucciso.

Ad un certo punto il piccolo Filip si fermò, stravolto dalla stanchezza, e sua madre, disperata, indicò un albero vigoroso in lontananza, dicendo che era un ciliegio. Il bambino adorava le ciliegie, quindi trovò la forza di rialzarsi e continuare.

Sette anni dopo, la giuria del giornale per bambini Pionir selezionò il miglior racconto tra i quattromila testi di giovani scrittori. Il nome del vincitore era Filip David, quel ragazzo che durante la guerra, per forza di cose, si chiamava Fića Kalinić. Quello fu il suo primo racconto: un vivido ricordo di quel viaggio tra vita e morte, in cui un pensiero così semplice, come quello concentrato sulle ciliegie, riuscì a spingere l’ago della bilancia verso la vita, una bilancia che in un momento così cruciale non poteva che chiamarsi “destino”.

“Fu così che divenni scrittore...”, diceva Filip David.

Durante l’Olocausto persero la vita più di cinquanta parenti di Filip. Dopo aver appreso la tragica notizia, sua madre rimase in silenzio per diversi mesi. Non perché non volesse parlare, ma perché, rendendosi conto dei meccanismi del Male, perse il dono della parola.

In un’occasione, parlando del Bene in quei “tempi bui” tra il 1941 e il 1945, David espresse la sua gratitudine agli abitanti di quel villaggio dello Srem: nessuno li aveva traditi.

Concludo questo articolo commemorativo dedicato ad uno scrittore e intellettuale europeo, serbo e jugoslavo, ricordando che Filip David fu uno dei fondatori dell’associazione per la cultura, l’arte e la cooperazione internazionale “Adligat”, contribuendo attivamente alla creazione del Museo del libro e del viaggio e del Museo della letteratura serba.


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