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“Una vita sempre in bilico tra l’esclusione e l’integrazione, l’assimilazione e la negazione”. Un racconto in prima persona tra Italia e Romania su cosa significa crescere con radici migratorie e un’identità in trasformazione
Nella vita dei bambini e delle bambine con retroterra migratorio, la migrazione è spesso un fattore legato ai progetti di vita della famiglia o di singoli genitori. Io sono partita a sette anni insieme a mia madre da un Paese, la Romania, che faticosamente cercava una sua via post-comunista, senza dittatori, segnato, ancora oggi, da un’inadeguata gestione del welfare e da profonde distorsioni nel sistema politico e istituzionale.
Sono arrivata in Italia a luglio del 2006, l’Italia pochi giorni dopo avrebbe vinto i mondiali, e l’anno successivo avrebbe registrato un boom di ingressi della comunità romena nel territorio data dall’ingresso in UE.
La comunità romena attualmente residente in Italia supera il milione, senza considerare i lavoratori stagionali. Un numero alto, che sicuramente ha fatto paura e tutt’ora colloca la comunità e i giovani romeni in una categoria di persone razzializzate, discriminate ed escluse, ancora soggette a stereotipi legati all’etnia e alla provenienza.
Poche persone ricordano i discorsi d’odio, i pregiudizi normalizzati per le strade e nei media italiani, lo stigma sui romeni che "per cultura" sarebbero dediti all’alcolismo, alla violenza e alle rapine.
A sette anni sono diventata migrante e immigrata senza sceglierlo. Non sapevo quanto il percorso migratorio avrebbe poi completamente cambiato la mia prospettiva di crescita, di pensiero e di percezione della mia identità.
Non sapevo che a forza di parlare sempre meno in romeno, avrei iniziato, senza accorgermene, a smarrire la struttura della frase, a perdere l’accento. Non sapevo che avrei speso anni a rincorrere delle doppie, a domare le trappole grammaticali italiane, del -cie e -scie, a piegarmi a un alfabeto che non conosce ț, ă, â, î, ș. Non sapevo che per imparare a parlare una nuova lingua, avrei dovuto lasciar andare, a poco a poco, quella che conoscevo come la mia lingua madre.
Non sapevo che avrei smesso di pronunciare e scrivere il mio cognome in maniera corretta e che le anagrafi in Italia, non hanno una tastiera con tutte le lettere del mondo, anche se basterebbe cambiare opzione e alfabeto.
Avrei cessato di essere Ilinca, il mio primo nome, per diventare Daniela, il mio secondo nome, poco usato dalla mia famiglia, ma più conosciuto e normale all’orecchio italiano e il mio cognome da Ioniță, sarebbe diventato Ionita, più semplice per la maggioranza, totalmente sbagliato come pronuncia per chi sa pronunciare quelle lettere.
Quello che ho imparato - una volta arrivata - è stato che avremmo diviso i nostri percorsi identitari e intergenerazionali tra mamma e figlia. Mia madre, così come mio padre in l’Inghilterra, sarebbero stati connessi a un’identità più vicina alla diaspora, a un sistema di tutela, protezione, familiarità legata alla lingua e alla cultura, al Paese di origine, alle difficoltà simili relative al rinnovo dei documenti, alla ricerca del lavoro, ma anche alle stesse celebrazioni religiose, negli stessi parchi dove trovarsi per fare grigliate e passare il tempo in compagnia, per sentirsi meno soli, per non dimenticare le proprie radici.
Prima di essere figlia di quest’Italia - ho trascorso 17 anni di attesa per ottenere la cittadinanza - sono cresciuta come figlia della diaspora. Ho visto cambiare progetti di vita e progetti di migrazione; non tutti sono rimasti, non tutti sono tornati, c’è chi pensa di tornare dopo la pensione, e chi ha figli nati e cresciuti qui ed è combattuto tra il desiderio di vederli autonomi per poi tornare “nel Paese” e la voglia di rimanere qui per essere più vicini a loro una volta adulti.
La diaspora spezza famiglie, alla ricerca di una vita migliore, più reddito e una qualità di vita migliore, questo il sogno. Lasciandosi indietro gli odori del proprio paese, cercando di cucinare gli stessi piatti, ma poi si scopre che la farina è diversa, il sapore delle verdure è differente, non c’è la stessa intensità delle spezie e lo stesso amore di chi te le vende nella tua lingua.
Una vita in costante attesa, in fila agli sportelli delle questure, per rinnovare i documenti, cambiare residenza, accontentarsi di lavori precari e poco pagati per non rischiare un permesso di soggiorno annullato o non rinnovato.
La diaspora è esilio per alcuni, nostalgia per altri, per altri ancora resistenza.
Io invece sarei stata una seconda generazione, non completa perché non nata in Italia, ma venuta in “tenera” età. Una tra un milione di studenti e studentesse con retroterra migratorio cresciuta in Italia, una realtà ormai strutturale dell’Italia di oggi.
Nei primi anni delle elementari eravamo una piccola minoranza di studenti con background migratorio, successivamente nelle classi delle medie e superiori sono aumentati i numeri degli arrivi ma anche delle nascite su suolo italiano.
Quel nome e cognome cambiato dall’anagrafe sui miei documenti italiani, mi ha portato anche a cercare sempre di più di assimilarmi, e ricercare una identità che potesse essere conforme, rispettosa, il più possibile a quella degli italiani autoctoni.
A distanza di anni, penso abbiano contribuito pressioni all’interno dell’ambiente scolastico, legato alla competizione, all’esclusione e alla premiazione di valori come la performance. Ma penso anche sia legato alla ricerca delle famiglie con retroterra migratorio, una ricerca di riscatto sociale e di classe tramite i figli e le figlie che eccellendo possono riscattare i sacrifici dati dal vivere come immigrato in Italia.
Una vita sempre in bilico tra l’esclusione e l’integrazione, tra l’assimilazione e la negazione.
Scegliere di ascoltarsi, prendersi cura del proprio passato migratorio, comprenderlo e risignificarlo.
Creare ponti tra le culture con cui cresci, legami con nuove, abbattere i confini fisici e investire su un’identità in continua sperimentazione, che possa guardare al retroterra migratorio come risorsa. Creare luoghi di ascolto e incontro, dialogo e confronto, anche di conflitto, utile per sviluppare nuove prospettive e accettare la propria identità multipla.
Permettersi la cura e la tenerezza, ma anche la voglia di cambiare questa percezione che ancora si ha nell’Italia del 2025 delle persone con background migratorio. Rivendicando in maniera intersezionale tramite la propria storia le oppressioni che non abbiamo scelto di subire all’interno di un sistema sociale razzista.
Perdonarsi e rivoltarsi verso una struttura sociale e politica oppressiva, cambiare, ricominciando dal proprio nome.
Questo articolo è stato prodotto nell'ambito di “MigraVoice: Migrant Voices Matter in the European Media”, progetto editoriale realizzato con il contributo dell'Unione Europea. Le posizioni contenute in questo testo sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni dell'Unione europea.
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