
© Michele Ursi/Shutterstock
L’8 e il 9 giugno è un momento storico per la Repubblica italiana: tra i referendum posti agli elettori, spicca quello sulla cittadinanza, che vuole nei fatti ridurre da dieci a cinque gli anni di soggiorno necessari a richiedere la cittadinanza per naturalizzazione
Il referendum sulla cittadinanza, uno dei quesiti della tornata prevista il prossimo 8 e 9 giugno, ha riportato nell’agenda politica del governo Meloni, ma anche dei partiti di opposizione, una tematica assente, evitata e ignorata.
Ha creato, insieme al referendum sul lavoro, una mobilitazione forte e nazionale, ha riunito una società civile che mostra obiettivi comuni, che si è organizzata in comitati locali, ha realizzato centinaia di eventi nei territori, ha ripreso a volantinare per informare in migliaia di strade dalle aree più abitate alle più remote.
Lo strumento del referendum abrogativo è dato dalla Costituzione italiana nell’art.75. Il più recente a risultare vincente risale al 2011 (era quello sull’acqua e l’energia nucleare), arrivando al 57% di affluenza, posizionando cosi l’Italia come Paese che non vuole il nucleare e chiede una gestione pubblica dell’acqua.
Il referendum è uno degli strumenti politici più chiari e lucidi, che costringe la politica ad ascoltare il popolo. La scelta del referendum sulla cittadinanza riguarda un percorso non scontato, fatto di ostacoli, lavoro, e passione, oltre che di coinvolgimento primario dei diretti interessati.
Dalla campagna “l’Italia sono anche io”, alle varie proposte di riforma mai arrivate a un uno sbocco concreto, il referendum è uno strumento alternativo, complementare al costante lavoro di mediazione con le forze politiche di tutte le fazioni, per far comprendere l’importanza di una necessaria riforma della cittadinanza che sia plurale, aperta e giusta.
Il referendum sulla cittadinanza è basato sull’abrogazione dell’articolo 9 della legge n. 91/1992, con la proposta di ridurre da dieci a cinque anni il requisito di residenza legale e ininterrotta delle persone con nazionalità extra europea in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza per naturalizzazione.
Un quesito che deriva da una riflessione fortemente pratica: la legge sulla cittadinanza va cambiata, riscritta, per dare un senso reale dell’Italia che siamo e che vogliamo.
L’attuale legge n. 91/92 ha uno stampo "biologico", predilige l’accesso alla cittadinanza legandolo all’eredità del sangue italiano - il recente il DL 36/2025, l’unica riforma portata a termine, è basato proprio sul ridurre al secondo grado di sangue l’accesso alla cittadinanza concedendo la cittadinanza automatica solo se un genitore o un nonno sono cittadini italiani.
Ma è anche, e soprattutto, una legge fortemente classista: si richiede un reddito minimo continuativo per i tre anni precedenti alla richiesta e per gli anni della stessa, che aumenta con il numero di persone a carico. Una continuità reddituale in un paese il cui accesso al lavoro stabile è ormai una vera impresa anche per gli italiani stessi. Altri requisiti riguardando l’avere un certificato penale pulito e una conoscenza B1 della lingua italiana. Tutti requisiti che rimarranno ancora nella legge, anche se passasse il Sì.
Oggetto del quesito referendario è la residenza stabile, che dipende strettamente da fattori esterni, dal lavoro, dal proprietario di casa, dall’accesso indiscriminato alla casa, dalla tracciatura stabile degli spostamenti e dalla mancanza di errori anagrafici. Ostacoli che uniti agli anni necessari, possono moltiplicarsi ponendo le persone in uno stato di attesa costante, in una tensione perenne tra il quotidiano vivere e la speranza di essere riconosciuti un giorno parte reale d’Italia.
Il referendum sulla cittadinanza si basa proprio sul punto cruciale della residenza. Sono attualmente dieci gli anni di residenza continuativa necessari per persone con nazionalità extraeuropea, mentre sono quattro per persone con nazionalità europea. Una differenza enorme nella vita quotidiana di chi deve ogni anno rimettersi in fila in questura per richiedere un permesso di soggiorno, spesso anche se sei nato e nata in Italia.
Una differenza che ha una base preferenziale creando "non cittadini di serie A" e "non cittadini di serie B". Un passaggio fortemente razzista della legge attualmente in vigore.
Cittadinanza e identità
Il concetto di cittadinanza viene spesso confuso o sovrapposto a quello di identità. È però fondamentale distinguere tra due piani differenti: da un lato, la cittadinanza intesa come status giuridico, legato alla legge, ai diritti e all’inclusione nel corpo politico; dall’altro, la cittadinanza intesa come appartenenza culturale o identità italiana. Si tratta di due dimensioni distinte, che non vanno confuse.
Dunque una legge sulla cittadinanza che riconosca i nati in Italia tramite lo ius soli, che riduca il divario legato alla nazionalità. Una legge che possa vedere, ascoltare, riconoscere l’Italia che c’è già, non è solo l’Italia del futuro, ma del presente e del passato non riconosciuto.
Spesso i pensieri che ricorrono tra le persone con retroterra migratorio sono legati a questa legge più che dal privilegio di sognare: non si può lasciare l’Italia per un viaggio studio lungo, per un dottorato o un lavoro anche temporaneo, perché significherebbe avere interruzioni di residenza e far ripartire il conto.
Significa percorrere le strade delle città con un documento chiamato permesso di soggiorno, che anche se sei nata e cresciuta sin da piccola in questo Paese, oppure da anni sei presente sul territorio ma non hai la possibilità di superare tutti i requisiti per avere la cittadinanza, continuerà a essere un permesso.
Un permesso che ti dice quanto puoi rimanere ancora nella città che ti vede crescere, un permesso che puoi non ricevere più se non hai motivi per lo Stato italiano di rimanere: un lavoro, lo studio o una famiglia a cui sei legata.
Significa accettare lavori in cui sei ricattabile, per poter arrivare alla soglia minima di reddito necessaria. Un conteggio costante, una costante attesa, in balia di decisori che sono sempre esterni ed esternamente ti garantiscono il permesso di restare, in un Paese che consideri casa.
La cittadinanza viene vista come una concessione e la procedura è discrezionale, ma un diritto non può essere una concessione. Un diritto deve essere chiaro, giusto, e accessibile. Perché ampliare i diritti degli altri non può essere un fattore negativo per una democrazia sana, una società civile che civile lo sia per davvero.
Questo referendum mette in gioco milioni di votanti, una società civile che vuole manifestare la propria volontà di schierarsi per i diritti di tutte e tutti, anche se non li riguarda in prima persona.
Un referendum che riparte dalla comunità, dalla collettività e dalla forza democratica di riconoscere che l’Italia è plurale, rivendicare il fatto che le identità non sono standardizzabili e che non esiste una forma di identità italiana giusta.
Ci sono molte forme di essere italiani e italiane e sono tutte una ricchezza. Ripartire dall’ascolto, dal confronto, dalle storie di chi ogni giorno resiste contro una burocrazia che lo vuole corpo sfruttabile ma non politico.
Ripartire dalla cura, e dal potere di voto come forma di resistenza.
Questo articolo è stato prodotto nell'ambito di “MigraVoice: Migrant Voices Matter in the European Media”, progetto editoriale realizzato con il contributo dell'Unione Europea. Le posizioni contenute in questo testo sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni dell'Unione europea.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!